“Benché sappiamo che dopo una [...] perdita cesserà lo stato acuto del lutto, sappiamo anche che resteremo inconsolabili e che non potremo trovare un sostituto. Qualsiasi cosa possa colmare il vuoto, ammesso che possa essere del tutto colmato, resterà comunque qualcosa di diverso. Ed è ciò che deve effettivamente accadere. È il solo modo per perpetuare quell'amore a cui non vogliamo rinunziare”.
Sigmund Freud, Lettera di condoglianze a Binswanger, 1929
“… sai la vita continua…” Questo è il messaggio di una madre a sua figlia inciso, qualche anno dopo la sua morte, su quella chiara lastra di marmo…Quando la morte ci porta via una persona che amiamo, questo provoca in noi uno stato di inesorabile sofferenza che ci confina in uno stato depressivo e che ci mette a contatto con quell’incolmabile dolore determinato dal grande vuoto che tale perdita ha lasciato.
Durante il lutto noi tutti siamo in un qualche modo impegnati a proteggere la memoria del defunto e a congelare quel momento precedente la morte come per confermare dentro di noi che ciò non sia mai accaduto. Si vive così una sorta di dedizione al lutto che difficilmente lascia spazio ad altri interessi ed attività. La persona che non c’è più lascia inevitabilmente un vuoto, che difficilmente potremo colmare e che se anche dovessimo riuscirvi, come diceva Freud “resterà comunque qualcosa di diverso”.
Freud, in “Lutto e Melanconia”, espone quanto la perdita di una persona amata sia simile alle separazioni, alla rottura di relazioni sentimentali. Egli parla dell’investimento libidico che il soggetto aveva fatto sull’oggetto d’amore, ovvero sulla persona che è venuta a mancare. In effetti nelle relazioni profonde ognuno di noi ripone nell’altro parti di sé e l’altro se ne fa custode. Nel momento in cui avviene una rottura di tale relazione, si sperimenta un duplice dolore, la perdita di una parte di sé assieme all’oggetto d’amore, ma anche un impoverimento del proprio Io dovuto a questa perdita. A questo punto è come se il soggetto dovesse recuperare quelle parti di sé che aveva investito sull’altro affinché possa alleviare tale dolore.
In realtà facciamo molta fatica a mettere in atto un tale disinvestimento e a volte questa difficoltà può manifestarsi come una vera e propria avversione che fa sì che l’oggetto d’amore “rimanga in vita” tramite gli oggetti che ne mantengono la presenza.
È come se la vita attorno a noi continuasse, tutto va veloce e riprende la normalità e contemporaneamente in noi tutto è fermo, immobile, come se non fossimo autorizzati a procedere nel nostro fare quotidiano, a volte costretti, ma mentalmente assenti.
Essere in vita, rispetto alla morte di un proprio caro, muove dei sensi di colpa, ma anche la rabbia nei confronti di chi ci ha lasciato, e così tornare a vivere, tornare ad amare, tornare ad amarsi e prendersi cura di sé può essere avvertito come un tradimento nei confronti di colui che non c’è più.
Dunque in questa prima fase di lutto la presenza dell’oggetto d’amore perduto viene prolungata. Gli oggetti spesso vengono utilizzati come mezzi che ci garantiscono la costanza dell’oggetto e inizialmente possono essere utili affinché il passaggio graduale verso il distacco si compia. A volte però ci illudono in qualche modo che la persona sia ancora presente materialmente nelle nostre giornate, ma in questo senso possono diventare dei veri e propri feticci.
Abbiamo bisogno di tempo e gradualità affinché possa avvenire tale distacco e tornare dunque alla realtà, così come quella madre che ha dovuto attendere molto tempo prima di incidere quelle parole impregnate di rassegnazione e senso di colpa. La fatica dell’elaborazione del lutto implica sia un dispendio di energie psichiche per affrontare la perdita della persona amata, sia un impegno nella ricostruzione del proprio mondo interno che si vede come minacciato.
La realtà ci richiama all’ordine e solamente quando il lutto volge al termine l’Io si sente nuovamente libero e può così tornare disponibile ad amare e ad investire parti di sé in un altro oggetto d’amore. Elisabeth Kübler-Ross è stata una psichiatra svizzera che ha identificato delle precise fasi riscontrabili nei pazienti a cui è stata diagnosticata una grave patologia e che sono riscontrabili anche nelle persone che vivono un lutto. Le fasi non sono da considerare degli stadi in successione, ma possono presentarsi in vario ordine e anche ripetersi. Nella fase della negazione il soggetto nega che il fatto sia accaduto davvero e rifiuta la realtà dicendo ad esempio: “non è possibile”, “non ci posso credere”; nella fase della rabbia e della paura, il soggetto può chiedersi come mai sia successo proprio a lui e può chiudersi in se stesso; in quella del patteggiamento, che corrisponde ad un tentativo di scendere a patti “se potessi”, “se avessi”, spera che la situazione si possa riparare; nella fase della depressione il soggetto inizia a prendere consapevolezza della perdita ed inizia a contattare il dolore; infine nella fase dell’accettazione avviene la presa di consapevolezza che la persona cara non c’è più e che “la vita continua”. Fisiologicamente il lutto può durare fino a dodici mesi. Quando tale condizione persiste, si parla di lutto patologico nel quale è possibile evidenziare uno stato depressivo persistente, indurimento emotivo, senso di colpa, rabbia verso se stessi e perdita di interesse per quasi tutte le attività e per il mondo esterno. Il dolore avvertito è un dolore psichico ma che può rivelarsi come un vero e proprio dolore corporeo. È vero che il tempo in questo caso ha il suo compito ed è parte fondamentale nella risoluzione di un lutto, ma è altrettanto vero che troppo spesso non è sufficiente a far sì che si verifichi una piena elaborazione del lutto.